Una denuncia anonima contro l’amministrazione comunale di Casagiove nel 1884

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I. Una lettera anonima recapitata al primo ministro d’Italia Agostino De Pretis

Di esposti anonimi, oppure firmati, nel corso della seconda metà dell’Ottocento, se ne fece un uso davvero smisurato, il tutto per cercare di screditare l’avversario politico. E’ quanto, effettivamente, accadde nell’agosto 1884, quando, al primo ministro Agostino De Pretis venne fatta recapitare una lettera redatta da mano anonima, il cui contenuto portava all’attenzione di una situazione non proprio gioiosa riguardante il Comune di Casagiove, nel “mandamento di Caserta” e, a quanto pare, “in balia di ladri”. Si trattava, nello specifico, del sindaco, del segretario comunale, dei consiglieri ed impiegati “tutti parenti ed affiliati” perché mercanti, industrianti “e vagabondi”. Pertanto, secondo il redattore dell’anonima, urgeva nominare un commissario regio, il cui scopo sarebbe stato ovviamente quello di “scoprire magagne” per poter ridare, in questo modo, al Comune “leggi” ed eliminare lo “spartirsi rendite”. Il sindaco era descritto come “avaro e retrogrado”, tanto da creare danni all’ “infelice comune”, impedendo “compere, ed opere di pubblica utilità” e che, certamente, doveva esserci lo zampino della “schifosa camorra”, per “ripartirsi la rendita”. Concludeva l’anonimo redattore, augurandosi che tale notizia, tramite la stampa, fosse stata propagata “al pubblico”.

(Il primo ministro Agostino De Pretis)

 

II. Le informazioni raccolte dai Carabinieri Reali sul conto dell’Amministrazione Comunale

Il 20 settembre 1884, i Carabinieri Reali della Divisione di Caserta, inviavano al prefetto di Caserta le dovute informazioni raccolte sul conto dell’Amministrazione comunale casagiovese “circa gli appunti fatti da un anonimo”. Le “riservate indagini” vennero, quindi, svolte dal sotto tenente Luigi Bassi, comandante della sotto sezione di Santa Maria, il quale relazionava in primo luogo che “in quell’Amministrazione vi sia (stato) del marcio”, anche se nessuno si attestava a manifestare “atti positivi e specifici”. Il sindaco di Casagiove di allora, il cavalier Pasquale Silvagni, veniva presentato come “ricco proprietario”, ritenuto “avaro”, ma allo stesso tempo “onesto ed incapace di una indelicatezza qualsiasi ed alieno dall’intrigo”. Un difetto che caratterizzava il sindaco Silvagni era, però, “la smania forse per distinguersi sopra gli altri suoi predecessori”, ed in particolare quella “di voler fare opere pubbliche, piuttosto di lusso, non assolutamente necessarie”, e ciò lo faceva giudicare, specialmente dal partito contrario, “complice di certe camorre” che attuava il segretario comunale e qualche assessore. Del tutto negative erano, invece, le considerazioni raccolte nei confronti del segretario comunale Carlo Grammacione, descritto come “un avanzo dei corpi franchi del passato governo, astuto, ladro, camorrista” e che nella sua qualità, “usurpatagli la cieca fiducia” dell’intero Consiglio comunale, la quale conduceva “pel naso”, non si sarebbe lasciata sfuggire occasione “per commettere delle ruberie”. Si diceva infatti che, qualche tempo prima, il segretario Grammaccione riuscì a “scroccare” 80 Lire ad un certo Giovanni Pecora, “sopra un lavoro che costui fece per conto del Municipio”, un vizio quello della tangente, che il segretario continuava ad attuare nei confronti degli appaltatori, dei muratori e a quanti altri svolgevano dei lavori per conto del Municipio. Sul conto di un altro assessore, Antonio Pepe, invece, si diceva che aveva “il monopolio delle farine” e che faceva “delle pressioni sui pastai e panettieri” obbligandoli a servirsi presso di lui, spiegando “nella sorveglianza maggior zelo” verso coloro che si servivano altrove, costringendo in questo modo il paese a mangiare “cattivo pane e pessima pasta”. Lo stesso monopolio poi, affermavano alcune voci, era posseduto dal Pepe anche per quanto riguardava l’olio. I Carabinieri passavano poi in rassegna il conto di due uomini: Michele Menditto e Luigi Cirillo, perché interessati “negli appalti per le opere pubbliche del Comune”. Al termine dell’inchiesta ad opera dei Carabinieri però, il comandante della divisione affermava che, nonostante fossero state raccolte non poche testimonianze sul conto di alcuni individui legati alla vita amministrativa del Comune di Casagiove, risultava tuttavia che “nessuno osa(va) palesare fatti determinanti”, ma ove si avesse proceduto “ad una severa ed altrettanta oculata inchiesta”, incominciando però dall’interrogazione di persone effettivamente coinvolte in alcune vicende, come muratori ed altri operai che avevano lavorato per il Comune, si poteva “far luce” e molti “sconci” sarebbero venuti, così, a galla. L’ufficiale dei Carabinieri Reali, nonostante gli sforzi, non conobbe l’autore della lettera anonima, ma alcune persone che erano ritenute oneste e che, a quanto pare, non avevano “alcun spirito di parte”, affermavano che l’ignoto che redisse la lettera anonima rispecchiava in realtà “l’espressione della verità”. Nella totalità, concludeva il comandante dei Carabinieri, “i maggiori lamenti” provenivano “nel popolo basso”, riguardo soprattutto agli abusi operati dall’assessore dell’annona, l’imprenditore Antonio Pepe.

 

III. La replica del sindaco Pasquale Silvagni

A seguito della numerosa raccolta di notizie riguardanti alcuni personaggi facenti parte dell’Amministrazione comunale casagiovese, non mancò, ovviamente, la replica da parte del sindaco Pasquale Silvagni, evidenziando in qualche modo i dovuti “chiarimenti contro ricorsi avanzati”. Questi “chiarimenti” furono, però, redatti dal Silvagni ben tre anni dopo, il 1887. Il Silvagni, quindi, rivolgendosi al Prefetto di Caserta, dichiarava sentenziosamente che aveva la “sicura coscienza” della sua retta condotta, e che riteneva giustamente quanto dichiarato dall’anonimo “una malvagia, e calunniosa assertiva” sul conto delle “vendite municipali” come pure sulle “illecite tolleranze sulle opere pubbliche”. Il sindaco Silvagni, allora, “nel modo più energico” sentiva di sfidare, chiedendo che la calunnia fosse diventata in qualche modo prova. Riguardo agli addebiti fatti al segretario comunale Grammaccione, di cui il sindaco Silvagni aveva “ottima opinione di onoratezza”, mancava positivamente ogni dato di fatto in contrario “da non dover dichiarare falsa la estorsione ai pubblici rivenditori”. “Falsa e stupida”, però, appariva ancora l’estorsione rivolta “ai sensali”, che non avevano “alcun rapporto col municipio”, bensì con la Pubblica Sicurezza di Caserta, “per concessione di patenti, e disciplina”. Questi sensali erano “in numero 6”, e dato che erano residenti in Casagiove, certamente, affermava il sindaco Silvagni: “sarebbe (stato) facile interrogarli”. Appariva, invece, del tutto “falsa e bugiarda” l’evasione “di indebiti diritti”, con riferimento in special modo “dai circa 24 pensionati quivi domiciliati”, dei quali parecchi non pagavano nulla, mentre altri, “come di prescrizione”, pagavano 20 centesimi per ogni certificato, che il segretario comunale rilasciava “a beneficio degli impiegati comunali”. Tuttavia, i mandati di pagamento, i conti comunali, restavano a disposizione di chi chiunque ne voleva esatta conferma. Per ciò che riguardava, invece, la manutenzione delle strade, questa veniva data in appalto “ad enorme ribasso”, quindi, non era possibile comprendere in che modo i consiglieri comunali potevano approfittare “dei risparmi”. Per quanto concerneva gli “apprezzamenti dell’illuminazione”, non quella elettrica, trattandosi a dire del Silvagni, ancora di quella alimentata a gas, però da poco migliorata “con aumento di altri fanali, e con l’abolizione delle franchigie lunari”. Tuttavia, una lunga trattativa, al riguardo, era aperta col signor Amebique già “fornitore del gas alla città di Caserta”. Al presente, però, pare che le cose siano state al punto da sperare che, prossimo sarebbe stato il tempo che il gas fosse giunto anche a Casagiove. Una ulteriore accusa, mossa contro il sindaco Silvagni, fu quella riguardante la “trascurata igiene”. A quest’ultimo proposito, infatti, il sindaco Pasquale Silvagni, rendeva noto che la spesa pubblica annuale “è(ra) fissata a Lire 280”. Perciò, lo stesso Silvagni, si domandava se tramite questa somma, se il popolo poteva, in qualche modo, “ottenere dippiù in un paese agricolo, che ha(veva) circa un chilometro e mezzo di vie selciate, e col passaggio giornaliero di centinaia di carri carichi di combustibile per i forni di calce, o di materiale da costruzione proveniente dalle cave?”. Oltre, però, a quella citata somma erogata per la pulizia urbana ed igiene, “in vista delle eccezionali condizioni sanitarie”, La Giunta municipale, in realtà, “spende(va) quanto occorre(va) a tutela della pubblica salute” e questa saggia scelta, diceva il Silvagni che venne attuata dal momento che “si deplorarono i primi casi di colera”, tanto da far aumentare il numero degli spazzini, nonché il personale addetto alla nettezza “delle vie e vicoli”. Inoltre, per quella nefasta circostanza colerica, vennero presi in servizio dei bracciali “per le disinfezioni dei cessi privati, orinatoi e condotti pubblici”. Il servizio legato all’igiene pubblica appariva così efficiente tanto che si pensò, “ad un servizio permanente di notte nella ipotesi di qualche nuovo caso epidemico”. Su questo aspetto dell’igiene, il sindaco Silvagni traendo le dovute conclusioni, affermava che il servizio “procede(va) attivamente senza alcun risparmio”. In fine, Pasquale Silvagni, non riusciva a spiegarsi, il perché delle accuse ai danni del tesoriere comunale che, almeno a suo dire, si trattava di un “agiatissimo proprietario di onesta e nota reputazione”. Le durissime accuse, infatti, dicevano che al tesoriere comunale era da imputargli “l’usuraio impiego del danaro comunale” e che, secondo il sindaco Silvagni, si trattava soltanto di una “atroce, ed insulsa menzogna” e, sempre per il sindaco Silvagni, l’accusato doveva “rispondere col disgustoso disprezzo”. Queste dicerie, dunque, vennero architettate ad arte “col reputare ben sventurato il paese dove esiste(va) mente così guasta, in così corrotta natura, satura di tanta velenosa perfidia, da calunniare tutto, e tutti usando mendaci di ogni specie”.

(Il sindaco di Casagiove, cavalier Pasquale Silvagni)

 

IV. La replica della Prefettura di Caserta a vantaggio dell’Amministrazione comunale

Con una nota del 5 dicembre 1887 avente per oggetto: “Casagiove. Ricorso contro il Sindaco e l’amministrazione comunale”, il prefetto di Terra di Lavoro informava il Ministero dell’Interno, ed in particolare la Direzione Generale dell’amministrazione civile in Roma, su quei “Gravi addebiti fatti con replicati ricorsi diretti alla Prefettura, contro l’amministrazione comunale di Casagiove e più specialmente contro quel Sindaco Cav. Pasquale Silvagni”. Il Prefetto di Caserta, in realtà, informava, sulla base delle testimonianze raccolte che quei ricorsi “erano dettati da spirito partigiano” e che “anche Casagiove ha(veva) disgraziatamente fazione avversaria del Sindaco e dell’Amministrazione Comunale, e smaniosa di rovesciare”. Questa sorta di “duello”, affermava il Prefetto, portava, a quanto pare “la firma apocrifa” del cavalier Di Mauro, trattandosi di uno “dei tanti ricorsi del genere”. In merito, poi, a quelle ultime elezioni amministrative “regolarmente seguite” in Casagiove, non furono “prodotti reclami”. Nella totalità, quindi, risultava che le cose denunciate, cioè “le pressioni quindi, le minacce, le corruzioni”, balenavano, in realtà “nella fantasia” del denunciante. Che il negoziante di paste e farine (Antonio Pepe) ricopriva la carica di “assessore municipale”, era vero, ciò che però non risultava, riferiva il prefetto, era che egli non abusava “dell’ufficio nel suo interesse”. Riguardo, invece, all’ingegnere direttore dei lavori comunali, era “ritenuto di regolare titolo ed è(ra) stato nominato al posto da parecchio tempo” e che poi, contro di lui erano “sorti finora reclami e doglianze”. I lavori commissionati dal municipio, poi, venivano “eseguiti dietro pubblici incarichi”. Il sindaco Pasquale Silvagni, ricco proprietario, ma persona onesta e, a quanto pare, incapace di compiere delle cattiverie, secondo il prefetto era il solo consigliere comunale che poteva “bene esercitare la carica di Sindaco”. L’accusa, in fine, rivolta ad alcuni consiglieri comunali, die quali però non si delineavano i nomi, appariva “così vaga ed indeterminata”, che non valeva affatto la pena “di rilevarla e discuterla”.

Fonti

  • Archivio di Stato di Caserta, Prefettura – Gabinetto (I inventario), busta 91 – fascicolo 1005.
  • Olindo Isernia, Aspetti e momenti di storia locale, Caserta 2020.

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