La memoria storica di Coccagna e del suo parroco don Francesco Mingione nella prima metà del Novecento

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Un gradito omaggio ai figliani di Coccagna, affinché non dimentichino il loro passato, di cui don Francesco Mingione fu l’artefice della “ricostruzione” spirituale e sociale.

 

Premessa

Troppe volte si dimentica il passato, stranamente anche quello più recente. La gente di Coccagna, però, non ha mai dimenticato il suo amato parroco don Francesco Mingione, questo perché, sicuramente, egli ha seminato solo ed esclusivamente il bene nella sua comunità di fedeli cristiani. Questo bene profuso dal parroco Mingione, ancora oggi, provvidenzialmente, viene tramandato dai più adulti del rione che ricordano, con sommo piacere, il fatto che don Ciccio regalava caramelle e cioccolata ai più piccoli, per non parlare poi della sua incrollabile fede e del suo essere stato sacerdote “appassionato”. Don Francesco Mingione ha amato Coccagna alla follia, è stato un padre, un consigliere fidato per chiunque gli andasse incontro, ha lasciato un solco nella storia di Casagiove tutta e, certamente, ha lasciato un messaggio profondo: quello di amare l’Altissimo e la Chiesa. Sarebbe bello, poter avere, un giorno non troppo lontano, oltre alla strada già intitolatagli, un angolo di Coccagna dedicato alla preghiera e perché no, anche alla ricreazione dei più piccoli, così da poterlo ricordare sempre. Questo ulteriore scavo di storia locale ha fatto emergere diversi lati della comunità di Coccagna, lati umani, ma anche spirituali.

 

I. Un ministero sacerdotale nel periodo più buio dell’umanità

Il ministero sacerdotale di don Francesco Mingione cadde in un periodo storico assai turbolento: lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’ascesa in campo di duri totalitarismi (comunismo, fascismo e nazismo) e poi lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Non è difficile immaginare, quindi, quale sia stato lo stato d’animo di don Ciccio, trovandosi a dover fare i conti con una realtà assai dura, fatta di tensioni sociali, discriminazione e morte. C’è da dire che, la maggior parte del clero specialmente nel periodo del ventennio fascista iniziato nel 1922 a seguito della celebre “Marcia su Roma”, pur non esponendosi pubblicamente per il sostegno al regime, non nascose tuttavia una certa “simpatia” verso il duce Benito Mussolini. E’ soprattutto nel 1929 che, questa “simpatia” può dirsi che raggiunse il suo apice, in concomitanza dei Patti Lateranensi sottoscritti tra la Chiesa e lo Stato[1]. Il parroco don Francesco Mingione, a tal proposito, faceva trapelare in un certo senso la sua “stima” verso il governo fascista, specialmente in alcune occasioni, come per esempio quando a partire dal 1922 la rendita della chiesa parrocchiale della Vittoria “ammontava Lire 2500 per benemerenza di Sua Eccellenza Mussolini”. A quanto pare, don Francesco poteva ritenersi anche sostenitore della causa coloniale italiana attraverso la Guerra d’Etiopia che si tenne dal 1935 al 1936 e che il parroco ne fece festeggiare la vittoria da parte delle truppe italiane, con una solenne processione “straordinaria” della Madonna della Vittoria che si tenne proprio il 31 maggio 1936[2]. Un ulteriore episodio emblematico della “stima” di don Ciccio verso Benito Mussolini avvenne quando nel 1942, giunse al parroco l’ordine di rimuovere la fontana pubblica presso la chiesa e che poi venne posizionata “sul marciapiede di D’Errico” e ciò avvenne perché don Francesco “si rivolse al Duce benefattore delle Chiese”.

II. Il sostentamento economico della parrocchia

In generale, l’economia delle chiese parrocchiali si reggeva principalmente sulle rendite. Anche la parrocchiale di Coccagna affermava il parroco don Francesco Mingione che, in realtà, a partire dal 1922 la rendita era annualmente di 2500 Lire e questo “per benemerenza di S. E. Mussolini”. Al Fondo Culto andavano poi incluse l’abitazione e le spese per il culto e per il parroco. La rendita del parroco fu ottenuta “dal governo”, ma specialmente dal precedente parroco don Pasquale Fiano, il quale spese per la parrocchia attuando alcuni lavori di fabbrica: “l’altare maggiore di marmo, l’ingrandimento delle campane e l’intonaco della facciata della chiesa e varie altre cose”, che però, in parte, vennero pagate dal parroco don Francesco Mingione. Il parroco della chiesa abbaziale di San Martino vescovo in Macerata, versava una “pensione” annua pari a 450 Lire alla parrocchiale di Coccagna, la quale era stata sempre elargita dagli abati curati della chiesa maceratese, solamente, però, l’abate curato don Pasquale Mangiacapra nel 1915 decise di “togliere Lire 50 dalla pensione adducendo la ragione che in Curia così era registrato”, mentre, nel possesso civile era registrato che l’abate curato doveva consegnare 510 Lire “lorde di tasse” al parroco di Coccagna annualmente e che il documento, cosa strana, era conservato dal parroco di Portico di Caserta. La parrocchia riceveva, ancora, 270 Lire annue dal parroco della chiesa dell’Assunta in Santa Maria la Fossa, come pure dal parroco di Leporano. Non si trattava, quella di Coccagna, di una parrocchia ricca, anche perché essa non possedeva ne una casa canonica, ne tanto meno dei terreni. Soltanto due “borderò” (somma) erano la sussistenza economica dell’ente ecclesiastico, uno dell’ex parroco di Coccagna don Carmine Scialdone che però “è(ra) depositato in Curia” e proveniva dalla rendita del quale si celebravano le messe, c’era poi l’altro “borderò” pari a 250 Lire concesso dalla famiglia Zari e con la cui rendita si dovevano celebrare “una messa mensile, una messa cantata nel giorno dei morti al Cimitero” e poi si doveva arricchire di candele e di fiori la cappella gentilizia della predetta famiglia al cimitero “nella Domenica infra ottava dei morti” e ancora, bisognava tenere la manutenzione di tale cappella con il versamento di 50 Lire annue come “canone al Municipio”.

III. La Congrega dell’Immacolata Concezione

La più antica forma associativa nel tessuto socio religioso di Coccagna era la Confraternita dell’Immacolata Concezione, fondata con Regio Decreto del 6 giugno 1826 concesso da Sua Maestà Francesco I di Borbone re del Regno delle Due Sicilie. I confratelli, diceva don Francesco Mingione, “ha(vevano) l’obbligo di servire nelle funzioni il parroco ogni qualvolta si invitava, solamente poi di Natale, al 1° dell’anno interveniva(no) senza invito”. Nella chiesa della Congrega, generalmente, “si celebra(va) la messa festiva verso le 7” e dopo “la messa prima della parrocchia”. Le funzioni che si tenevano nel contesto confraternale erano, essenzialmente, la novena all’Immacolata Concezione, il settenario dei defunti “che incomincia(va) quasi sempre nel giorno 2 novembre” e la novena che precedeva la prima domenica di giugno, cioè “quando si celebra(va) la festa” popolare in onore della Vergine. Le funzioni all’interno della Congrega erano di norma officiate dal parroco nonché padre spirituale don Francesco Mingione e, soltanto in alcuni casi da “un delegato suo”.

IV. La devozione verso il Sacro Cuore di Gesù

Nella parrocchia di Coccagna, assai sentiti risultavano essere il culto verso la Gran Madre di Dio ed il Santissimo Sacramento, Gesù vivo e vero nell’Eucarestia. Un ulteriore culto legato alla figura di Cristo era, invece, quello dedicato al Sacro Cuore. Nella parrocchia, infatti era presente l’associazione dell’Apostolato della Preghiera istituita proprio dal reverendo don Francesco Mingione il 1 luglio 1909. Oltre però alla citata associazione laicale, la devozione era messa bene in vista tramite una statua del Sacro Cuore di Gesù, la quale, era stata prodotta a Roma dalla ditta Zanazio, ditta specializzata nella produzione di sculture sacre che, a quanto pare, operava nella Capitale dalla metà del XIX secolo e che aveva sede in via Borgo Nuovo 96, strada successivamente demolita per fare posto alla ben più nota via della Conciliazione. Trovandosi la ditta nelle immediate vicinanze del Vaticano, la statua destinata alla parrocchia della Vittoria di Coccagna venne benedetta da papa san Pio X e poi, una volta giunta a Casagiove venne inaugurata “nella 3° domenica di aprile 1910 con solenne processione”, dove, per la prima volta l’Apostolato della Preghiera fece sfoggio di “un ricco labaro lavorato dalle suore di Casagiove con asta di metallo”. La statua costò “Lire 220”, mentre il labaro associativo “Lire 250 incluse il lavoro che fu donato dalle suore ricevendo una regalia”.

V. Una comunità spiritualmente e socialmente impegnata

La comunità parrocchiale di Coccagna poteva ritenersi, al tempo di don Francesco Mingione, una comunità davvero impegnata spiritualmente quanto socialmente. Oltre alle consuete celebrazioni delle messe, il patrimonio devozionale di Coccagna appariva davvero ricco: con solennità si celebrava il mese dedicato al Bambino Gesù “con un poco di spiegazione alla sera, ma sempre a volontà del Parroco”, il mese di maggio dedicato alla Madonna “con fervorino ogni sera” e il mese dedicato al Sacro Cuore di Gesù sempre con il “fervorino” di  sera. Negli ultimi tre giorni del periodo di carnevale, invece, si usava esporre “dalla mattina alla sera” il Santissimo Sacramento. Nel corso della Quaresima, poi, “oltre la dottrina ogni giorno” si celebravano i “7 venerdì all’Addolorata e ogni domenica la Via Crucis” e non mancava pure un corso “di santi spirituali esercizi”. Le funzioni della Settimana Santa si svolgevano “con solennità” con il canto del Passio per “due volte”. Altro culto sentito nella comunità parrocchiale di Coccagna era quello verso la “vecchia potente”, la gloriosa sant’Anna. A quest’ultima, infatti, era dedicata la novena che si recitava in chiesa, “a devozione di D.(donna) Rosa Iannotta” che donò pure “la statua con la nicchia alla Parrocchia nell’anno 1912 ai 26 luglio”. Ogni sera, ancora, si impartiva la benedizione ai fedeli, mentre, nella terza domenica di settembre, si celebrava “il settenario con la messa cantata all’Addolorata”. Il 7 ottobre, era il giorno più solenne per la comunità, essendo la festa della Madonna della Vittoria. In genere, però, Coccagna festeggiava la sua “Regina” la terza domenica di ottobre “con novena, triduo, panegirico e messa solenne” e le spese per questa solennità “si rivela(va)no dall’elemosina che fa(ceva) un devoto ogni mercoledì”, mentre, la festa esterna in onore della titolare parrocchiale “è(ra) a cura di Michele Melone”. La festa del Corpus Domini si celebrava con solennità, generalmente “nella mattina di quel giorno” e “la spesa della musica è(ra) pagata dal popolo”. La solidarietà tra i figliani di don Francesco Mingione non era affatto trascurata tanto che, a turno, si raccoglievano le offerte dei fedeli. Ogni lunedì, per esempio, una devota girava per il rione “per l’elemosina del Purgatorio” e con i contributi raccolti si celebravano “messe e spese per la chiesa” con l’intesa di un cassiere che era un tal Antonio Lughi. Ogni venerdì, invece, uscivano due donne “per l’elemosina del pane e dei denari”, i quali, una volta raccolti si consegnavano al suddetto cassiere e tali spese occorrevano “per il consumo di luce elettrica e candele durante l’anno”, e se la somma superava il previsto “si rimette(va) nelle spese di Venerdì Santo”. Ogni domenica, poi, uscivano due giovinette “per l’iscrizione delle 3 ore di agonia”. Ogni mese le zelatrici del Sacro Cuore di Gesù uscivano “per le ascritte” e i contributi raccolti occorrevano “per le spese annuali, per le messe alle sorelle e per la festa interna in onore del Cuore di Gesù”. La prima domenica del mese, invece, di mattina “alle 9” le fanciulle cantavano alla messa in onore del Sacro Cuore di Gesù, al giorno poi c’era l’esposizione solenne del Santissimo Sacramento in cui si faceva “l’ora di guardia letta dal Parroco”.

VI. I benefattori della parrocchia

A volte, la fede e la devozione non venivano espresse soltanto attraverso la preghiera ma, il più delle volte, proprio attraverso la “materia”. E’ ovvio che, questa cosa, certamente andava a vantaggio della parrocchia, evitando di spendere troppi soldi. Ecco che, quindi, venivano in aiuto e in maniera del tutto spontanea coloro che potevano essere ritenuti “benefattori” a tutti gli effetti. Don Francesco Mingione redigeva, a tal proposito, un elenco di uomini e donne che, spinti dall’amore verso l’Altissimo e la Chiesa, avevano voluto lasciare un loro ricordo a perenne memoria. Il reverendissimo monsignor Giuseppe Perrotta, per esempio, nel 1896 donò alla parrocchia “un perno bianco fiorato”, come pure “un pallio con le aste per la processione del Corpus Domini”, nonché “un ombrellino, tutto il parato di candelieri di ottone con croce all’altare maggiore, il trono di legno inargentato per l’esposizione del SS.”. Don Francesco, inoltre, appuntava che il canonico Perrotta “morì ai 22 settembre 1910”[3]. Il parroco che aveva preceduto don Francesco Mingione, cioè don Pasquale Fiano, invece, “offrì l’altare maggiore di marmo, le campane più grandi, l’intonaco della facciata e varie tovaglie”. Anche l’arcivescovo metropolita di Capua, monsignor Gennaro Cosenza, non fece mancare il suo affetto alla parrocchia di Coccagna, offrendo “per varie volte camici, purificatori, tovaglie” e in più “diede la facoltà di binare (la messa) nel 1914 al Parroco per comodità del popolo”. Nel 1920, ancora, furono comprate le “14 figure a tela della Via Crucis per Lire 350” e di cui 200 lire vennero offerte dalla giovane Pasqualina Vitale e il resto venne prelevato dalla “cassa del Purgatorio”, cioè le offerte che venivano raccolte in suffragio delle Anime sante del Purgatorio. Le cornici attorno alle immagini, poi, vennero fatte a spese di Vincenzo Ferrante “alias Papparello”, il quale “elargì Lire 40”. Successivamente, venne fatto il nuovo impianto di luce elettrica alle stazioni della Via Crucis e, in più, vennero pure sostituite le lampadine sui lampadari davanti all’altare “mentre prima erano a carbone”. Il 2 aprile 1922, la signora Messina, consorte del proprietario della Filanda serica, fece dono alla chiesa della Vittoria “una statuetta di S. Francesco di Paola onorandola coi 13 venerdì precedenti alla di lui festa”. Michele Melone che, tra l’altro, aveva cura della festa della titolare Maria SS. della Vittoria, nel 1919 donò alla statua della Madonna “una ricca bandiera con aste di ottone”.

VII. I lavori di restauro ed abbellimento alla chiesa

Durante il ministero sacerdotale del parroco don Francesco Mingione, la chiesa di Coccagna fu soggetta a non pochi lavori di manutenzione e di decorazione. Per cominciare, nel 1923 fu rinnovata tutta la chiesa “con decorazioni”, poi venne “innalzato un muro a livello della strada Cave alte per evitare che l’acqua filtrasse nelle fondamenta”. La chiesa, poi, venne decorata dal noto pittore casertano Francesco De Core, padre del più noto artista Antonio, “per Lire 3500”. Furono poi tolte le immagini che erano decorate “sotto la volta della chiesa”, cioè sull’altare, dove erano effigiate Santa Maria Maddalena “fatta nel 1883 per devozione di Antonio Prisco” e Sant’Anna “sulla volta dell’organo per devozione di Filippo Melone”. Lo stesso De Core rinnovò l’immagine della Madonna della Vittoria e dello Spirito Santo, per la somma di altre “Lire 500”. Sempre nel 1923 “fu appianato l’atrio della chiesa, una parte di esso fu chiuso con rete di ferro e furono seminati tutti fiori per il culto di Dio” e per fare ciò, don Francesco spese 300 lire. Poi, lo stesso parroco fece riparare sommariamente il tetto della chiesa perché a suo dire, “in alcune parti vi scorreva e per evitare che si macchiasse la volta vi spesi Lire 100 per canali, calce, muratore”. Ma, nonostante i lavori svolti le infiltrazioni di acqua avvenivano ancora e per questo, il parroco si vide costretto “a ricorrere al municipio” dove vi era il Regio Commissario Casagrande “ex colonnello dei carabinieri”, il quale aveva promesso di far riparare il tetto. La promessa non venne però esaudita perché nel gennaio 1924, il commissario “finì la sua gestione” e poi si tennero le elezioni comunali. Quest’ultimo aspetto risulta essere di particolare interesse, perché don Ciccio informava del fatto che durante lo svolgimento di quelle elezioni “si usarono molti soprusi” in particolare dal partito di Pepe “che portava per sindaco D. (Don) Tommaso De Angelis”[4]. A vincere quelle elezioni, come è noto, fu però “il partito Castiello con l’intera lista”. Ad ogni modo, anche dopo le elezioni l’amministrazione comunale fece “orecchie da mercante”, poiché nel mese di giugno 1924 il tetto della chiesa parrocchiale venne completamente riparato, ma con i soldi del parroco. In un primo momento, don Ciccio Mingione ne fece “la domanda al Municipio” in quanto, secondo il parroco, “tale riparazione che spettava per diritto ad esso (al Municipio) perché la chiesa è(ra) sufficientemente congruata”. La Giunta municipale era, in quell’epoca, composta dal sindaco Giuseppe Castiello, Luigi Santoro e dai signori Guarriello, De Flora e Comes i quali, a loro volta, scrissero al parroco che siccome aveva già spesso dei soldi per la riparazione dell’interno della chiesa, doveva, allo stesso modo, provvedere alla riparazione del tetto. Don Ciccio, allora, decise di esporre la questione al prefetto di Caserta, ma il componente della Giunta Luigi Santoro, probabilmente per non fare una pessima figura e “dopo tante promesse”, fece ottenere al parroco “a stento Lire 350”, mentre egli ne spese 900 Lire ma “tutto a gloria di Dio”.

VIII. Un furto inaspettato

L’episodio che ebbe luogo nell’agosto 1924, certamente, turbò l’animo di don Francesco Mingione. Si trattò di un furto ai danni della cassa diocesana di Capua, il cui contenuto era di “circa 3 milioni di titoli” che in realtà, poi, venne rivelato, “per evitare maggior scandalo”, che al suo interno vi era soltanto “circa 1 milione e mezzo”. Tale crimine danneggiò pure le finanze dell’ex parroco di Coccagna don Carmine Scialdone, che possedeva un titolo pari 1000 Lire, cioè derivante da “la rendita del quale si consegnava al Parroco di Coccagna per celebrazione di messe”. Colui che conservava questa cassa era il canonico don Pietro Marraffa fiduciario dell’allora arcivescovo di Capua monsignor Gennaro Cosenza, il quale non la passò liscia, perché, venne immediatamente incarcerato e condotto nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere. Da quel momento in poi, i vigilatori della cassa erano il vicario don Saverio Riccio, il canonico don Domenico De Angelis e il canonico Rauso, i quali, costatarono che effettivamente, la porta della stanza nel seminario, dove appunto era custodita la citata cassa, risultò chiusa e che la chiave la possedeva soltanto il canonico Marraffa, mentre “la cassa era tutta rotta”. Nel corso del ladrocinio ci furono, però, anche dei complici, tra cui un tal signor Langella il quale, a quanto pare tentò di trasferire i titoli all’estero ma, per sua sfortuna, venne arrestato mentre era di ritorno da Trieste. Si voleva arrestare anche il pronipote dell’arcivescovo, cosa che però non venne attuata grazie alla “cooperazione” del prelato monsignor Parente che, in questo modo, “evitò un altro scandalo”.

IX. La fine del ministero parrocchiale del parroco Mezzacapo e il clero casagiovese

L’11 gennaio 1925, nel corso dell’ “ultima messa” il parroco don Raffaele Mezzacapo della parrocchia di San Michele Arcangelo, “avvisò il popolo che per ragione di salute licenziava la Parrocchia”. Di li a pochi giorni da quell’ “avviso”, don Francesco Mingione venne chiamato dall’arcivescovo di Capua “per essere preferito a fare il parroco a Casagiove”, ma don Francesco declinò l’invito del presule ringraziandolo “senza accettare”. In verità, però, anche altri sacerdoti furono invitati alla guida della parrocchiale di San Michele Arcangelo, trattandosi comunque di una parrocchia importante dell’arcidiocesi e che quindi non poteva restare “vacante”. Sicché si stabilì che il parroco Mezzacapo fosse rimasto alla guida della parrocchia micaelica “fino a quando non si sarebbe fatto il concorso verso aprile”. Furono, ancora, invitati altri a guidare la comunità parrocchiale casagiovese, mentre il parroco uscente Mezzacapo, “pretendeva L. 3mila di pensione” e perciò “nessuno volle accettare”. Gli unici due “pretendenti” risultarono essere i due cugini omonimi: don Salvatore Mingione “di Antonio” e don Salvatore Mingione “di Luigi” e cappellano curato a Bellona. Fu proprio quest’ultimo che riuscì, in quanto nessuno era andato al concorso, e “nel giorno 14 maggio (1927) fece pomposamente l’ingresso col Vescovo”. Come si è visto in un nostro precedente scritto[5], quando don Francesco Mingione si avviò alla vita sacerdotale, Casagiove poteva ritenersi una fucina di sacerdoti. Tra questi religiosi c’era il canonico don Nicola Mauro, il quale era stato “Cappellano Reale dei Borbone”, c’era poi, padre Luigi Russo “Superiore e Provinciale dei (frati) Minori” che prestava servizio presso la chiesa di San Pietro ad Aram in Napoli. C’erano, ancora, don Francesco Centore, don Andrea Mingione “Economo ad Ercole” insieme col parroco don Francesco Santoro. Del tutto particolare, invece, appare la vicenda vocazionale del canonico don Antonio Manzi, cioè il prete ritenuto garibaldino che, non a caso, “al 1860 si secolarizzò” prendendo parte alla spedizione dei mille “spogliandosi” degli abiti sacerdotali e abbracciando la causa dell’unificazione nazionale (1861) e che soltanto “al 1880 ritornò al grembo della Chiesa”. Don Antonio Manzi diede, infatti, prova del suo attaccamento alla causa unitaria italiana quando, nel 1876 recitò in veste di professore, presso il vescovado di Caserta un elogio funebre che inneggiava alla celebre battaglia del Volturno (1860). Un episodio riguardante il canonico “garibaldino”, divulgato dallo storico casertano Giuseppe Tescione, fu quando, trovandosi ormai verso la fine della sua vita terrena, “l’italiofilo” arcivescovo metropolita di Capua cardinale Alfonso Capecelatro, incaricò il canonico casagiovese monsignor Antonino Centore di amministrargli gli ultimi sacramenti. In realtà, però, il Manzi ricevette gli ultimi sacramenti dal parroco della chiesa di San Michele Arcangelo in Casagiove, don Tommaso Buonpane e dopo, “se ne andò all’eternità” il 3 giugno 1883[6].

X. La missione popolare del 1938

A Coccagna, grazie all’impegno di don Francesco Mingione, non erano per nulla rare le missioni popolari per incrementare maggiormente il fervore spirituale tra i figliani. Il 27 marzo 1938 giunsero, infatti, presso la comunità parrocchiale della Vittoria due religiosi napoletani: il parroco Pasquale Nardi “di Miano” (quartiere di Napoli) e il sacerdote Marcellino Marseglia di Napoli. I due religiosi si erano portati a Coccagna per poter compiere una missione popolare “per 14 giorni”. Alla sera, generalmente, padre Marcellino “faceva l’istruzione”, mentre, di giorno “la predica di Massima”. I due missionari, nel corso della loro permanenza, trovarono alloggio nella casa di Giuseppe Castiello, invece, il vitto venne offerto dal parroco Mingione “con tutti gli altri trattamenti” e venne preparato da Antonio Santoro “ostiere” del signor Castiello. Durante la missione furono celebrate varie funzioni: alla domenica di Passione, per esempio, si formò un corteo religioso nel pomeriggio per raggiungere il cimitero e per poter venerare al meglio i morti. Al corteo presero parte, ovviamente, le “rispettive associazioni” della parrocchia, senza però, la presenza della Congrega dell’Immacolata Concezione. Nel cimitero di Casagiove si tenne “un fervorino presso l’ossario”, mentre, al rientro del corteo, il predicatore tenne, nel sagrato della chiesa, “un discorso contro la bestemmia”. Nel sabato vigilia della domenica delle Palme, in occasione dell’ennesima predica i padri fecero arrivare nella chiesa parrocchiale l’immagine della Madonna del Rosario proveniente dalla casa madre di Napoli. Il martedì della seconda settimana della missione popolare venne amministrato il sacramento della prima comunione alle fanciulle, alla presenza di bambini e giovani e dopo la messa venne portato in processione il simulacro del Bambinello “col suono delle campane, campanelli ed orazioni”, nonostante “tirasse vento forte”. Non mancò, nel corso della missione, l’amministrazione del sacramento dell’Eucarestia agli infermi, così come alle madri e alle spose. La sera della vigilia della domenica delle Palme, la statua della Madonna protettrice dell’Ordine venne trasportata in processione “fuori il cancello” della chiesa, tra lo sparo dei “fuochi e suono di campane”. La domenica delle Palme, invece, si presentò con una giornata caratterizzata da “vento e neve”. Al termine della missione popolare, i padri ricevettero dal parroco don Francesco Mingione un obolo pari a “Lire 700” in cui, però, era inclusa pure la celebrazione delle “3 ore di Maria Desolata”, più altre 116 Lire “di viaggio” e 300 Lire “di vitto”.

XI. La vita quotidiana

Seppur a grandi linee, alcuni episodi di vita quotidiana, ci hanno fatto comprendere cosa accadesse a Coccagna nel periodo in cui don Ciccio fu parroco. Il 12 settembre 1927, per esempio, il nipote omonimo di don Ciccio, chiamato dallo zio prete affettuosamente Ciccillo “si vestì da seminarista e fu messo gratis nel Seminario”, anche se poi ne fecero “pagare tutto”. Purtroppo però, nella quotidianità, c’erano persone che non davano buon esempio, specialmente se si trattava di uomini consacrati, ed è effettivamente quanto avvenne la sera del 24 settembre 1927, quando il cappellano curato di Montecupo don Pasquale Vitale “si ritirò ubriaco misurando la via” tanto da attirare l’attenzione, in modo particolare, dei soci del “circolo Ideale”. Alla fine di quello stesso mese di settembre, invece, si discusse la causa del prof. Perrotta contro il signor Castiello “perché nella notte del 1° dell’anno in pubblica strada si questionarono”. Alla fine, però, il Perrotta “fu assolto per insufficienza di prove”. Nei primi giorni del mese di ottobre 1927 fu chiamato a Montecupo dal cappellano curato don Pasquale Vitale, con l’assenso di don Lorenzo Centore, “un perverso eremita” di nome fra Paolo Rubino “il quale non faceva altro su ordine di don Pasquale calunniare il Parroco di Coccagna”. Per queste calunnie rivoltegli, infatti, don Francesco Mingione decise di tutelarsi, recandosi nei primi giorni di novembre 1927 dal Vice Questore a Caserta e, dopo pochi giorni decise di scrivere direttamente al Questore. Non dovevano essere, poi, tanto idilliaci i rapporti tra don Francesco Mingione ed un altro sacerdote di Casagiove chiamato in maniera ironica dallo stesso don Francesco, “parrocchianello”. Non si trattava, a quanto pare, di malessere soltanto emotivo tra i due religiosi, anche perché si sfociava in veri e propri dispetti. In un anno imprecisato, il 19 luglio giorno in cui Casagiove ricorda San Vincenzo dé Paoli, accade che il padre dell’anonimo “parrocchianello”, un tal “masto” Luigi di professione “falegname”, a dire di don Francesco Mingione, per cacciare un certo Saverio (probabilmente il sacrestano della chiesa della Vittoria) “mise un catenaccio alla porta della Chiesa e al Campanile e poi il figlio Parroco fece mettere le sedie di Saverio fuori e fece intervenire l’avvocato D’Andria”. Questo episodio ebbe però l’effetto indesiderato da parte dei due meschini, in quanto suscitò nel popolo sdegno e raccapriccio “tanto che molti ragazzi fuori chiesa gridavano con fischi”. Lo stesso sgomento popolare si ripeté anche il giorno seguente e, soltanto il 22 luglio si cercò la riconciliazione, tanto che furono convocati dal pretore a Caserta don Francesco Mingione assieme a Saverio e al “parrocchianello”, ma purtroppo, la riconciliazione “non fu possibile”. La vita quotidiana dell’epoca, ci parla, però, anche di episodi legati alla scarsa, quanto immancabile, sicurezza sul lavoro. Nel giugno 1922, per esempio, il giovanissimo Francesco Patafio di 18 anni e originario della Calabria, “mentre lavorava nella Domenica infra ottava del Corpus Domini nella filanda serica”, rimase fulminato dalla corrente elettrica e, per ordine del signor Giuseppe Messina proprietario dello stabilimento “fu portato alla sepoltura di notte nascostamente”, probabilmente per non avere problemi legali e per occultare, in questo modo, che si sarebbe trattato di incidente. Anche Antonio De Rosa, nel 1923, ebbe la stessa tragica sorte del Patafio, perché “mentre lavorava nella caldaia del setificio Messina rimase bruciato dalla corrente elettrica”. Vincenzo Melone aveva appena 6 anni nel 1928, quando purtroppo morì annegato “in una vasca d’acqua alle calcare del nonno”. All’età di 66 anni, il 19 novembre 1932, cessava di vivere il cavalier Giuseppe Messina “padrone della filanda serica il quale da 10 milioni che possedeva diventò povero per varie ragioni”. Nei primi giorni dell’ottobre 1944 due sorelle, Maria e Matrona Castiello, “morirono sotto le macerie  della propria casa la quale rovinò alle ore 6 di mattina”, seppellendo altre 6 persone che, però, “furono salve”.

Note

Tutte le frasi riportate tra virgolette sono state estrapolate dalla documentazione consultata e conservata presso l’Archivio storico arcivescovile di Capua. L’occasione è gradita nel porgere un sincero ringraziamento ai funzionari del cennato Archivio, al direttore don Gianfranco Boccia e alla dottoressa Rosalba De Riso, per la loro professionalità e disponibilità.

[1] Olindo Isernia, L’episcopato di Natale Gabriele Moriondo (1922 – 1943) attraverso il Bollettino Ufficiale della Diocesi di Caserta, Caserta 2004.

[2]Archivio dell’Arciconfraternita di Sant’Antonio di Padova di Casagiove, Cifrario delle mancanze 1932 – 1957.

[3] Il compianto Michele Santoro dedicò al suo prozio canonico ben tre pubblicazioni (edite nel 1993, 1997 e 2006), attraverso le quali è stato possibile conoscere a grandi linee la biografia di questo illustre cittadino. Tuttavia, però, i dati anagrafici forniti a suo tempo da Michele Santoro risultano errati. Risulta, infatti, errata la data di nascita collocata al 7 settembre 1833, poiché egli nacque ben due anni dopo, Il 7 settembre 1835. Giuseppe nacque dall’unione matrimoniale di Francesco Perrotta, originario di Orta di Atella, di professione “calcarolo“, domiciliato a Coccagna presso la “strada Trivio”, e da Mariantonia Petriccione (non Ragozzino come riporta Michele Santoro) di professione “filatrice”. Come testimoni della nascita del piccolo Giuseppe c’erano, il “bracciale” Francesco Melone, domiciliato in Coccagna alla “strada Cancello”, e il “bracciale” Pietro Ferrante, anch’egli domiciliato presso la stessa strada (Archivio di Stato di Caserta, Stato Civile napoleonico e della restaurazione, Coccagna – Registro delle Nascite anno 1835). Anche don Francesco Mingione, in realtà, sbaglia la trascrizione della data di morte, in quanto il canonico don Giuseppe Perrotta morì si il 22 settembre, ma del 1907.

[4] Antonio Casertano, Le elezioni comunali a Casagiove nel 1924 tra la mobilitazione contro i vecchi fascisti, violenze inaudite, sostituzione e sequestro di persone, ViviCampania 2020.

[5] Antonio Casertano, La vita di una comunità con il suo parroco: la parrocchia di Santa Maria della Vittoria in Coccagna e il sacerdote don Francesco Mingione, ViviCampania 2020.

[6] Aa. Vv., Alfonso Capecelatro. Arcivescovo di Capua nella storia e nella chiesa. Atti del Convegno internazionale di studi tenutosi nel 1983. Napoli 1985.

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