La violenza a Casagiove nella seconda metà dell’Ottocento, tra scaramucce, offese e pene
Premessa
La storia, in generale, è stata caratterizzata da uomini e donne con i loro pregi e difetti. Certamente, però, ieri come oggi, è possibile appurare come effettivamente faccia più audience la cronaca nera piuttosto che la cronaca rosa. Questa ulteriore indagine di storia locale “inedita”, ci ha data possibilità di addentrarci ancora una volta negli spaccati della vita quotidiana di alcuni individui, i quali, certamente, non diedero esempio nella vita pubblica. Scaramucce tra soldati talvolta causate da futili motivazioni, due uomini incarcerati per ovvi motivi legati alla loro pessima condotta sociale, infine c’é una lite avvenuta nel contesto di un Pio Sodalizio laicale, da cui fuoriuscirono pure parole a dir poco “colorite”.
I. Lite tra un milite della Guardia Nazionale ed un soldato del “disciolto” esercito delle Due Sicilie
Era la sera del 1 aprile 1861, quando, l’ufficiale della Guardia Nazionale Giuseppe Fiano, “transitando per una strada di questo comune”, nei pressi dell’abitazione di una tale Rosa Sodano, quest’ultima “di condizione bettoliera”, ad un certo punto notò un assembramento di soldati dell’esercito che “qui stanziati”, cercavano di entrare nella casa della Sodano. I soldati, perciò, “al suo comparire” (dell’ufficiale Fiano), gli andarono incontro chiedendo “che si fosse fatta giustizia contro un tale”, di nome Giuseppe Valle, anch’egli milite della Guardia Nazionale ma di Napoli, nonché, anche genero della detta “bettoliera”. Il gendarme Valle si trovava “presso di lei ricoverato”, perché a dire dei soldati dell’esercito: “aveva offeso e percosso l’emarginato di loro compagno”, andava quindi catturato e consegnato a chi di dovere, altrimenti, continuavano i soldati, “l’avrebbero fatto loro stessi”. L’ufficiale Giuseppe Fiano, però, “per togliere ogni occasione a disturbi, e disordini ulteriori”, dispose che sia il milite della Guardia Nazionale di Napoli, sia il soldato dell’esercito “del Corpo del treno” Angelo de Libero, si fossero giustamente recati presso il posto di guardia, “onde far dritto a chi di ragione”. Si procedette quindi a sottoporre i due individui ad un interrogatorio, dal quale ne fuoriuscì che: il soldato de Libero “giocava in una bettola – quella di proprietà di Rosa Sodano – a carte con un ragazzo”. Durante il gioco, il soldato, “cercava di sopraffarlo” e siccome il ragazzo voleva andarsene, ecco che il soldato, indispettito, lo percosse. Il gendarme della Guardia Nazionale, che aveva osservata la scena all’interno del locale, allora, decise prima di “perquisire il ragazzo”, poi “rimproverò il soldato con modi veramente un po’ bruschi, chiamandolo carognone pel suo modo di agire”. Il soldato, risentito per quanto affermato, “replicò sullo stesso tono anzi peggio”, perché “oltre a qualche bestemmia, aggiunse pure ch’egli era soldato di Francesco II e non un carognone”, al ché, il gendarme della Guardia Nazionale “gli diede uno schiaffo”. Uscito dalla bettola, l’offeso soldato “se ne andò a raccontare l’accaduto a diversi suoi compagni”, compagni che appunto, furono trovati vicino alla casa della Sodano. Pertanto, il capitano della Guardia Nazionale di Casanova, Giuseppe di Mauro, ritenne opportuno, “per una misura preventrice”, trattenere nel posto di guardia i due individui acciuffatisi.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta, Alta Polizia (II inventario), busta 65 – fascicolo 5625.
II. Che fine ha fatto Luigi Garzillo?
Luigi Garzillo, figlio di Nicola e di Caterina Centore, nativo di “Casanova di Caserta”, con la decisione del 18 luglio 1849 della Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro, era stato condannato alla condanna di venticinque anni “di ferri nel presidio” per aver commesso un omicidio volontario. Pertanto, il Garzillo sarebbe dovuto restare in carcere fino al 18 febbraio 1861, ma, a seguito, probabilmente di buona condotta la pena venne ridotta “di anni nove, mesi dieci, giorni venti di una”. Il governatore della provincia di Terra di Lavoro, il 10 maggio 1861, segnalava i connotati di Luigi Garzillo ed informava tutte le autorità civili e militari di non molestare, né di far molestare il Garzillo, perché da Caserta doveva portarsi all’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo Ulteriore e che una volta giunto lì aveva l’obbligo di presentarsi “a quel signor Governatore”. Luigi Garzillo, tramite i connotati forniti dal governatore di Caserta, aveva 37 anni ed era di condizione “muratore”, mentre, il suo aspetto fisico appariva di statura “giusta” con capelli “neri”, occhi “celesti”, la forma del naso “giusta”, il mento “tondo”, il colore della carnagione “naturale” e la barba “folta”. La decisione di inviare Luigi Garzillo all’Aquila era dovuta al fatto che, avendo appunto consumato l’omicidio doveva, quindi, “tenersi lontano miglia 30 dalla dimora delle parti offese”. In realtà, però, il Garzillo non raggiunse mai l’Aquila e addirittura, in base alle informazioni raccolte il 7 luglio 1861 dall’Amministrazione comunale di Casanova e Coccagna, “forse trova(va)si in Gaeta”.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta, Alta Polizia (II inventario), busta 71 – fascicolo 6299.
III. La condotta di Francesco Costanzo, mandato a domicilio coatto a Capraia
Da Torino, il nuovo governo italiano capeggiato ormai dalla dinastia Sabauda, faceva pervenire tramite una nota del Ministero dell’Interno datata 24 maggio 1864, al prefetto di Caserta, le dovute informazioni sul conto di un tal Francesco Costanzo di Casanova, il cui nominativo compariva in una lista di persone appartenenti, o sospettati di appartenere al brigantaggio che, all’indomani dell’unificazione nazionale, imperversò in gran parte del territorio dell’ormai decaduto Regno delle Due Sicilie sotto la dinastia Borbonica. Al Costanzo, infatti, venne assegnato il domicilio coatto (misura di prevenzione introdotta con la legge Pica del 1863) “nella isola di Capraia”, dove era in realtà già giunto nel febbraio del medesimo anno. Sul suo conto, riferiva il Ministero, che in realtà risultava “cieco, cagionoso e di avanzatissima età”. Nonostante, però, la salute minata dall’età, il delegato di pubblica sicurezza del circondario di Caserta, riferiva al prefetto di Caserta in data 10 giugno 1864, che a seguito di accurate indagini e nonostante l’età avanzata del soggetto, egli era in realtà “capace di commettere qualunque reato, e nella impotenza, di consigliare agli altri di commetterne”. Lo stesso Francesco Costanzo, poi, “è(ra) stato sempre in relazione con tutti i ladri del suo paese, e di paesi circonvicini e tutti i reati che si consumavano per quei dintorni erano da lui consigliati”. Questa descrizione assai nefasta riguardante l’anziano Francesco Costanzo, portò, infine, il delegato di pubblica sicurezza a stimare “di non accordare al Costanzo il ritorno nel paese” e di restare, pertanto, imprigionato presso l’isola dell’arcipelago toscano.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta, Prefettura Gabinetto (I inventario), busta 251 – fascicolo 2570.
IV. Insulti al priore della Congrega dell’Immacolata Concezione del villaggio di Coccagna
“Un gran fatto in contravvenzione alla regola di fondazione – scriveva il priore Giovanni Errico – è(ra) stato consumato in questo Sodalizio” il mattino del 10 dicembre 1881. Si trattò, per la sua forma, avendo avuto lo scopo di offesa nei riguardi del priore, “di pessimo esempio ai confratelli”. Data la gravità dell’episodio, il priore Giovanni Errico decise allora di narrare quanto effettivamente accaduto, tramite un rapporto indirizzato al prefetto di Caserta. La scaramuccia venne causata da un tal Tommaso De Angelis di Lorenzo, “novizio di questa Confraternita”, il quale, ingannando la buona fede “di varie persone”, invitate da egli stesso ad assistere alla messa parrocchiale, aveva in realtà, “di arbitraria iniziativa”, stabilita “la sua investitura a fratello di sacco”, facendo altresì pressione su pochi confratelli, obbligandoli “sotto mistificate comminatorie”, ad assistere “alla improvvisata funzione”. Il priore, allora, venendo a conoscenza del fatto, si recò “nella cappella oratoria”, e osservato “il mesto apparato”, si ritirò verso la sacrestia, dove poi fece venire il De Angelis. Il priore Errico, quindi, “con garbati modi” fece comprendere al presunto confratello, che per ascendere da novizio a fratello di sacco, doveva uniformarsi a quanto affermato nella Regola statutaria, approvata contemporaneamente alla fondazione del Pio Sodalizio, con Regio Decreto del 6 giugno 1826. Tommaso De Angelis, “orgoglioso del suo elementare sapere” nonché “pieno di iattanza nel predicare ai cretini la sua scarsa conoscenza”, ritenuto pure “vanitoso per essere da costoro ritenuto un Demostene”, non accettò il giusto avvertimento del priore, “e con atti da trivio si permise rispondere con oltraggi e minacce” e addirittura fece segni al priore di prenderlo letteralmente “a calci in culo”. Quello che però addolorò maggiormente il priore Giovanni Errico, furono “le obbrobriose espressioni eruttate in pubblico oratorio”. A seguito della proibizione da parte del priore e nonostante il chiasso e lo scandalo prodotti, il De Angelis, non contento, in modo prepotente, volle farsi creare dal parroco, “ignaro delle regole, perché Parroco novello”, fratello di sacco in segno di disprezzo verso la carica priorale e verso le “tavole di fondazione del Sodalizio”. Il priore, quindi, invitava il prefetto di Caserta nel “dare le opportune disposizioni”, affinché fosse stato punito l’autore “di un fatto che diede luogo pubblica commozione”.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta, Prefettura, Carte Amministrative (8 inventario) fascicolo 3317.