Il canonico Domenico Mingione e gli Istituti di Credito casagiovesi: la Cooperativa di Consumo (1919) e la Cassa Rurale (1921)

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Ad Ivano, a cui mi lega profonda amicizia.

 

Introduzione

A qualcuno, oggi, può sembrare strano che un ecclesiastico si immischi in faccende amministrative, dato che siamo abituati a vedere i sacerdoti con indosso paramenti liturgici nell’atto di celebrare la messa. In passato non era così e il nostro illustre concittadino, don Domenico Mingione, ne è stato un esempio lampante. In tempi in cui regnava, purtroppo, ignoranza e poca scolarizzazione, i sacerdoti, studiando nei Seminari, riuscivano ad avere un’infarinatura generale su diversi argomenti. Possiamo affermare, senza dubbio alcuno, che il canonico Domenico Mingione è stato davvero un’ “operatore sociale”, dedicando la sua vita, la sua esperienza fisica ed intellettuale al servizio dei prossimi, guidando saggiamente l’Amministrazione dei due Enti creditizi che agli inizi del Novecento erano sorti in Casagiove, sotto gli auspici dell’Enciclica emanata da papa Leone XIII nel 1891, la “Rerum Novarum”. Annotava don Mattia Zampella, parroco della chiesa di Santa Croce in Casagiove, nel questionario inviato dal vescovo di Caserta monsignor Natale Gabriele Moriondo in occasione della Visita Pastorale nel 1924, che tra il clero parrocchiale figurava in quell’anno soltanto don Domenico Mingione, nato a Casagiove nell’agosto 1887, figlio di Gennaro Mingione. All’epoca, il canonico Mingione, ricopriva la carica di padre spirituale della Congrega di San Michele Arcangelo in Casagiove (Arcidiocesi di Capua), nonché di professore presso il Seminario diocesano di Caserta. Risultava poi che lo stesso, conviveva in casa col padre e due sorelle.

 

I. Il canonico Mingione e le Autorità Ecclesiastiche

Alla fine del dicembre 1923, precisamente in data 28 dicembre, il “sottoscritto sacerdote” Domenico Mingione, scriveva al vescovo di Caserta, monsignor Natale Gabriele Moriondo dell’Ordine dei Predicatori (Domenicani), chiedendo umilmente affinché, “implorando la S. Sede”, avesse ricevuto i dovuti permessi per “continuare a far parte del Consiglio Amministrativo della Cooperativa di Consumo e della Cassa Rurale”, enti che funzionavano nel Comune di Casagiove, dove appunto don Domenico “risiedeva”. E’ ovvio, che il vescovo di Caserta, per tale richiesta, doveva fungere da tramite presso la Curia romana. Il Mingione era spinto a tale richiesta non per interessi personali, “giacché nessun guadagno ritrae(va) da tali cariche”, ma semplicemente per il “bene materiale e, per riflesso, anche morale”, onde si avvantaggiavano non solo i soci, ma anche gli estranei a tali società. Per quanto riguardava il “bene materiale”, per mezzo della Cooperativa “i generi di consumo” erano migliori “per qualità e accessibili per prezzi”, mentre, “per le circostanze speciali del paese” in quanto vi era “grande affluenza di militari, d’impiegati e di studenti”, gli abitanti sarebbero dovuti sottostare alle “disoneste esigenze dei troppi venditori”. All’epoca, sempre a dire del canonico Mingione, per mezzo della Cassa Rurale, veniva in qualche modo “limitata l’usura che rovina(va) i contadini e gli operai e si aiuta(va) la povera gente da una parte col risparmio, dalla altra con i piccoli prestiti per i bisogni più urgenti”. Per ciò che riguardava il “bene morale”, invece, i cittadini notavano “i benefici” che ridonavano “da queste istituzioni d’indole prettamente cristiana ed evangelica”, evitando di “disperarsi e imprecare”. Gli stessi cittadini, poi, avevano l’opportunità di abituarsi “al risparmio, alla previdenza, alla compassione ed aiuto scambievole, al pronto pagamento delle spese e dei debiti, senza strascichi” che avrebbero di conseguenza fomentato odi “e sue conseguenze”. Don Domenico Mingione era convito allo stesso tempo, che, i cittadini “nell’osservare che un sacerdote prende(va) parte, insieme con altri cittadini di inerollabile fede religiosa e di specchiati costumi cristiani, alla direzione di questi enti” si erano “persuasi che il clero non solo predica(va) la carità nelle se varie forme; ma la pratica(va) e la incoraggia(va)”. Per questo motivo, infatti, i cittadini casagiovesi nutrivano “maggior rispetto e fiducia non solo per il sottoscritto (Mingione), ma anche per gli altri sacerdoti del paese”, cercando di ascoltare “più volentieri” da loro “il richiamo alla Fede e ai buoni costumi”, aiutandoli in questo modo “in altre forme di carità”. A questo punto, il canonico Mingione si permetteva di far notare “umilmente” sia al vescovo di Caserta, sia alla Suprema Autorità della Chiesa, alcuni punti indispensabili che riguardavano i due Enti di credito. Per primo veniva fatto presente che i due Enti erano “sorti con l’impronta e il carattere degli enti di azione cattolica, conformi ai dettami e ai fini dell’Enciclica Rerum Novarum”, poi, la gran parte degli utili di dette Istituzioni venivano “devoluti in opere di beneficenza (non escluse le opere missionarie)”. Se per caso, il sacerdote avesse “sottratto l’occhio e l’intelligenza e il cuore”, i detti Enti sarebbero capitati “in mani imperite e sperperatrici”, come purtroppo, era avvenuto “in moltissimi enti dei paesi circonvicini”, quelli casagiovesi, sarebbero caduti “nelle terribili circostanze economiche generali e locali”. Il Mingione, non nascondeva tuttavia un pizzico di malinconia, in quanto, avendo mostrato più volte il desiderio di ritirarsi dalla Cooperativa di Consumo, “persone intelligenti del paese lo accusavano di volerne la rovina”. Il lato tecnico per la gestione degli Enti era conformato “in modo da escludere la possibilità di fallimento sia per cause esterne (essendo indipendenti da ogni altro ente e trovandosi in perfetta conformità alle leggi) che per cause interne (per la temperanza nelle spese, per l’assenza di tentativi rischiosi, per la gratuità delle cariche ecc.)”. In Casagiove, all’epoca, a dire del canonico Mingione: non c’erano “correnti ostili, nemmeno di ordine politico sia alle due istituzioni che al sottoscritto o agli altri che ne facevano parte”. Paradossale però, era il fatto che “gli stessi” che erano “soliti ostacolare il clero in altri campi”, pur tuttavia, incoraggiavano don Domenico Mingione “in questo ramo del campo sociale”. Nonostante “le poche occupazioni del sottoscritto a favore dei due istituti”, queste non gli sottraevano “nulla del tempo da impiegarsi (e che realmente egli impiegava) nelle attività proprie del sacerdozio”, impiegando quindi una parte del tempo “che molti confratelli” impiegavano “oziando”. Al termine della sua richiesta, il canonico Mingione, sottoponeva “al giudizio imprescindibile dell’autorità dell’Ecc. V. Rev.ma”, affinché questi si fosse reso “interprete presso l’Autorità Suprema della S. Sede”. In ogni caso, il Mingione, si dimostrava “disposto a sottomettersi alla volontà dei Superiori, la quale libera(va) gl’inferiori da ogni responsabilità morale per gli effetti delle cessate attività di questi”.

 

II. Le posizioni assunte dalla Santa Sede sulla questione del canonico Mingione

La Santa Sede guardava con attenzione le richieste inoltrate dai vescovi italiani, affinché, sacerdoti delle loro Diocesi avessero potuto intraprendere attività piene di responsabilità, specialmente se si trattava di mansioni legate all’amministrazione. La questione riguardante il canonico don Domenico Mingione, rientrava, senza ombra di dubbio, in questa tematica. Infatti, a tal proposito, non tardò ad arrivare al vescovo di Caserta Natale Gabriele Moriondo, una nota in data 6 giugno 1923, avente per mittente la Segreteria di Stato di Sua Santità. Nella nota, a firma del cardinale Pietro Gasparri, si portava all’attenzione del presule casertano che in virtù del Codice di Diritto Canonico, l’Ordinario diocesano poteva “per gravi ragioni, permettere ad un Ecclesiastico suo suddito, di accettare un ufficio” che avrebbe importato “responsabilità di carattere finanziario presso Casse rurali, Cooperative, od altri simili Istituti”. Tuttavia, il pontefice dell’epoca, Pio XI, rifletteva molto “ai gravi inconvenienti che si erano verificati e si andavano verificando in Italia”, cercando di liberare in questo modo i “Reverendissimi Ordinari da ogni responsabilità in materia così importante”. Il Santo Padre aveva quindi stabilito che “fino a nuova disposizione”, nessun ecclesiastico “in Italia ed Isole adiacenti” poteva assumere, senza un esplicito permesso dalla Sacra Congregazione del Concilio, “un simile ufficio” e a coloro i quali avevano assunto un prelato nel passato, si chiedeva di dimetterlo “entro il corrente anno”, e se ciò non fosse stato possibile, si chiedeva di ricorrere alla predetta Sacra Congregazione, “per ottenere la debita licenza”. Non si fece attendere un riscontro anche dalla Sacra Congregazione del Concilio, con nota del 17 gennaio 1924, la quale, una volta esaminata l’istanza del sacerdote Domenico Mingione “per ritenere l’ufficio di amministratore della Cooperativa di Consumo e della Cassa Rurale di S. Vincenzo dé Paoli in Casagiove”, si invitava il vescovo di Caserta ad “informarsi esattamente sulla gestione e lo stato della detta Cooperativa e della Cassa Rurale a norma dell’accluso questionario, per riferire poi sul risultato a questa S. Congregazione”.

 

III. La Cooperativa di Consumo

Don Domenico Mingione, sacerdote della Diocesi di Caserta, nativo di Casagiove, aveva già fatto parte del Consiglio di Amministrazione dei due Enti creditizi che operavano nella cittadina, ma, per poterne fare nuovamente parte, dovette rispondere a due questionari inviati dall’Autorità ecclesiastica, la quale, ovviamente era intenzionata a conoscere meglio la faccenda che avrebbe nuovamente coinvolto il canonico casagiovese. La Cooperativa di Consumo che, “ha(veva) carattere cristiano sociale”, era stata fondata in Casagiove nell’anno 1919 “dalla Sezione locale del Partito Popolare”, dalla quale però successivamente si “è(ra) staccata non spiritualmente ma solo politicamente”. A dire del canonico Mingione, all’epoca “tutti i cittadini del paese” erano “restii a qualsiasi organizzazione, non esclusa la cattolica” e che “i soci della Cooperativa” erano nella massima parte “confratelli di Congreghe laicali”, di cui una, quella di San Michele Arcangelo, aveva per padre spirituale proprio il sacerdote postulante. Il Mingione, inoltre, teneva a dire che “la massima parte dei soci” erano “rispettosi della Religione e del Clero”, sebbene la praticavano “con diverse gradazioni, come da per tutto”. La Cooperativa fu fondata dal sottoscritto sacerdote Mingione “in unione con persone di specchiata fede e pratica cattolica al fine esclusivo e nobilissimo di sottrarre i compaesani alla speculazione dei venditori, giacché, per diverse cause, il paese compra(va) i generi a prezzi più elevati della vicina Caserta”. L’ente creditizio, come si è potuto vedere fin d’ora, era di stampo cattolico ed ecclesiastico, tanto che “il miglioramento morale dei soci” scaturiva principalmente da alcuni aspetti: dal raggiungimento degli scopi della cooperativa, dalla presenza del sacerdote e delle altre dette persone e dalle “conversazioni” che i soci tenevano frequentemente e dato che, nel paese “non essendoci opere buone costituite”, la Cooperativa “eroga(va) somme in beneficenza o in sporadiche manifestazioni religiose e patriottiche”. Il sacerdote Domenico Mingione, a suo dire, “s’è(ra) trovato nel 1923 a esser Presidente della Cooperativa per libera scelta fatta dagli Amministratori e per la compiacente approvazione dei soci extra Assemblea”. Il canonico Mingione aveva avuto modo, in quattro anni di gestione e con l’approvazione da parte del “compianto suo Vescovo” monsignor Mario Palladino, di potersi addentrare nella economia “di simili opere di carattere popolare”, garantendo di essere stato in grado di controllare “le azioni di tutti gl’impiegati, compreso il contabile”. Mediante tale oculatezza si erano infatti “licenziati a tempo gl’impiegati sospetti” e si erano di conseguenza conservati i fedeli. L’opera messa in atto dal Mingione, nonostante gli aveva sottratto tempo, egli, “in coscienza” era consapevole del fatto che il suo allontanamento dall’amministrazione dell’Ente, avrebbe causato lo “sfasciamento o, per lo meno, di deviazione essenziale dell’ente”. La Cooperativa era costituita legalmente “sotto forma di Società collettiva per azioni”. In quell’epoca il capitale sociale era costituito da azioni per circa 8000 Lire, le merci venivano acquistate proprio tramite il detto capitale, “con L. 7000 di volontarie prestazioni e con L. 2000 della cauzione”. La cassa dell’Ente aveva “un numerario variabile dalle 1000 alle 4000 lire”. La Cooperativa risultava altresì “federata alla Federazione delle Cooperative bianche per la provincia di Caserta ,[la quale Federazione però funziona(va) e non funziona(va)]” e pertanto, la Cooperativa casagiovese risultava “controllata da se stessa e dall’opinione pubblica”. Solo alcune cariche all’interno del Consiglio di amministrazione della Cooperative erano retribuite: “quella del Cassiere col 0,40 % sugl’introiti, quella del Contabile con L. 100 mensili e quella del Segretario col 0,29 % sugl’introiti”. Al termine della sua relazione riguardante la Cooperativa di Consumo, don Domenico Mingione affermava che: “Tutti i lavori degli Amministratori” erano gratuiti, “pagandosi le pure spese da loro incontrate con estrema parsimonia”.

 

IV. La Cassa Rurale

Di “carattere cattolica”, come risultava dalla sua denominazione “S. Vincenzo dé Paoli”, la Cassa Rurale provava la “fede e pratica cattolica” attraverso i suoi Amministratori e “dalla loro oculatezza nell’ammissione di soci nuovi”. Questo Ente creditizio era stato fondato nel 1921 dal canonico Lorenzo Centore, vicario foraneo dell’Arcidiocesi di Capua, e dalla cooperazione di uomini di provata fede cristiana. Lo spirito che animava la Cassa Rurale “è(ra) espresso dall’indirizzo che essa seguiva in piena conformità allo spirito dell’istituzione delle Casse rurali”. Il sacerdote don Domenico Mingione era in quell’epoca Consigliere dell’Amministrazione e, aveva potuto fino a quel momento, “comodamente ed esattamente occupare anche il posto di Contabile sia per la sua discreta preparazione, sia per la semplicità e poca variabilità dei conti, sia per l’assistenza disinteressata, sebbene saltuaria, di persone veramente e legalmente tecniche”. Il Mingione, con un pizzico di orgoglio diceva che nel paese non vi erano persone “capaci di sostituirlo, ai fini della Cassa Rurale” e che il “Consiglio si raduna(va) due o tre volte al mese, con l’intervento dei sindaci”. Il fido massimo era di 3000 Lire “estensibile a Lire 5000 nei casi urgenti giudicati dal Consiglio” e non a caso, non si facevano “assolutamente prestiti superiori”. Lo Statuto poi, prevedeva che non erano permessi “prestiti ai non soci”, applicando questa regola “inesorabilmente”. A coloro che depositavano nella cassa dell’Ente, “per deliberazione dell’Assemblea”, era previsto il 3,50% “per i depositi liberi”, il 4% “per i vincolati a 6 mesi”, il 4,80% “per i vincolati a 1 anno”, il 5% “per i vincolati a mesi 19 o oltre (non meno di L. 1000)”. Ogni anno veniva redatto “regolare Inventario” e lo si trascriveva poi “nell’apposito libro obbligatorio”. Tutti i documenti riguardanti l’ente venivano presentati al Tribunale. Colui che svolgeva, all’interno del Consiglio di Amministrazione, la mansione di cassiere, veniva descritto come “una persona tecnicissima e di specchiata condotta, che riscuote(va) la fiducia indiscussa dell’intero paese”. Cosa strana era la figura del segretario che, a dire del Mingione aveva “poca importanza”, mentre, l’amministratore delegato aveva “le stesse doti del cassiere” e risultava essere “un cattolico nel senso più rigoroso e più estensivo della parola”. Ad ogni modo, ognuno compiva “il suo ufficio coscientemente e apertamente”, senza però essere retribuiti. Gli unici due (cassiere e contabile) che lavoravano con più assiduità avevano ricevuto “una gratificazione annuale di L. 200 per ciascuno”. Nel contesto provinciale casertano, la Cassa Rurale “funziona(va) con  fondi propri” ed era “indipendente da qualsiasi ente bancario”. Infine, il canonico Domenico Mingione, diceva che la stessa Cassa Rurale non possedeva “titoli all’infuori dei propri”, non possedeva merci “per ora”, ne “macchine agricole”, ne tanto meno aveva “altri debitori che i mutuatari”.

Fonti archivistiche

Archivio Storico Diocesano di Caserta: I.01.13. Fascicolo 89

 

Sua Eccellenza monsignor Natale Gabriele Moriondo, vescovo di Caserta dal 1922 al 1943.

 

Sua Eminenza cardinal Pietro Gasparri, colui che l’11 febbraio 1929 sottoscrisse insieme a Benito Mussolini i celebri Patti Lateranensi.

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