Il forzato intervento dell’arcivescovo di Capua Gennaro Cosenza, contro la cattiva condotta di don Francesco e don Salvatore Mingione, parroci di Casagiove
“Il Vescovo è principio di unità nella Chiesa, ma questo non avviene senza l’Eucaristia: il Vescovo non raduna il popolo intorno alla propria persona, o alle proprie idee, ma intorno a Cristo presente nella sua Parola e nel Sacramento del suo Corpo e Sangue.”
(papa Francesco)
Introduzione
Non è per nulla strano imbattersi in testimonianze riguardanti, purtroppo, l’esempio negativo che alcuni sacerdoti trasmettevano ai loro fedeli, facendo trasparire in questo modo, il lato più “umano” nascosto nel loro animo. Queste “banali” discussioni tra sacerdoti, operanti in una stessa cittadina, come nel caso di Casagiove, erano quasi all’ ordine del giorno: ogni parroco voleva prevalere sull’ altro a causa di futili motivazioni che per loro, però, erano assai importanti. Certo, il ministero sacerdotale portato avanti da questi uomini “consacrati” a Dio, doveva mandare avanti esclusivamente gli insegnamenti evangelici, e non il proprio “egocentrismo”. In effetti, la Conciliazione tra il Regno d’Italia e la Chiesa (Patti Lateranensi sottoscritti l’11 febbraio 1929), aveva conferito ai parroci “maggiore autorità e maggiore prestigio”, qualità che però avevano piena validità soltanto se i prelati conducevano realmente una vita esemplare, “offrendone continue e insuperabili prove”. Il caso dei due parroci di Casagiove, suscitò talmente raccapriccio tra il popolo, tanto da farne impiegare i redattori del giornale “Terra di Lavoro”, raccontandone su due paragrafi i fatti. D’altronde, storie del genere sono riconducibili anche ai nostri giorni, ma fortunatamente, ci sono sacerdoti che ogni giorno, attraverso il loro esempio di vita cristiana, realmente vissuto, cercano, attraverso l’aiuto dell’Altissimo di condurre alla santità le Anime che a loro sono state affidate. La storia di Casagiove (già Casanova) ha avuto figure di parroci che davvero hanno condotto una vita esemplare, all’ insegna degli insegnamenti dettati dalle Sacre Scritture e, provvidenzialmente, ancora oggi, la città, continua ad avere parroci che instancabilmente, curano paternamente la “vita cristiana” dei loro fedeli.
I. I parroci Mingione perseguitati dalla Legge
Nei primi giorni del settembre 1929, due parroci di Casagiove, don Francesco Mingione e don Salvatore Mingione (rispettivamente parroci di Santa Maria della Vittoria in Coccagna e di San Michele Arcangelo), recatisi in Pretura a Caserta, avevano dato “tristissimo spettacolo di miserabili beghe”, suscitando di conseguenza in tutti i cittadini casagiovesi “penosissima impressione, che offusca(va) e danneggia(va) la Religione”, tanto da provocare verso i due ecclesiastici una non circondata “generale estimazione”. Ad ogni modo, uno dei parroci in questione era alle prese col suo sacrestano, poiché “licenziato dopo ventitré anni di servizio senz’ alcuna indennità”, l’altro parroco, invece, era stato querelato “per minacce con mezzi anonimi”, accusa dalla quale ne uscì assolto “per insufficienza di prove”, rimanendo così “vulnerato nella propria superiorità morale”. Risultava poi, che quest’ultimo parroco, era a sua volta querelante “contro un monaco per ingiurie e diffamazioni”. I fedeli di Casagiove, spinti probabilmente da qualche Autorità locale, tramite i giornalisti del quotidiano “Terra di Lavoro”, decisero di rivolgersi alla più alta carica della gerarchia ecclesiastica locale, il “dotto e pio” arcivescovo metropolita di Capua, monsignor Gennaro Cosenza (arcivescovo di Capua dal 1913 al 1930), al quale chiedevano sollecitamente di non “ignorare i fasti e nefasti di questi due suoi parroci di Casagiove”, prendendo i giusti provvedimenti “a purificatrice tutela dell’indefettibile decoro della sua Archidiocesi e della Religione”, provvedimenti che i fedeli attenevano “solleciti e decisivi”.
II. I severi, ma paterni provvedimenti dell’arcivescovo Gennaro Cosenza
Dal momento che l’arcivescovo capuano aveva “conosciute le miserevoli vicende di quei due parroci di Casagiove”, tempestivamente aveva “preceduto alla tutela del decoro della sua Archidiocesi e della Religione”. Il presule aveva “già adottati provvedimenti di rigore” a carico del parroco Francesco Mingione, e cioè “quello dell’assoluzione per insufficienza di prove nel processo per minacce con mezzi anonimi”. I fedeli casagiovesi, quindi, attraverso la voce del giornale “Terra di Lavoro”, plaudivano il presule capuano, “le cui alte virtù – a dire dei redattori – sperimentammo appieno quando avemmo la fortuna di averlo amatissimo presule di Caserta”. L’altro parroco, don Salvatore Mingione, cedendo alle efficaci esortazioni del Pretore capo (In Italia il pretore era un giudice monocratico cui era affidata la giurisdizione in materia civile e penale, oltre a importanti compiti di natura amministrativa e volontaria giurisdizione), cavalier Alfonso Renella, attraverso “generosi impulsi del cuore”, si era così arreso a versare una “congrua indennità” al sacrestano licenziato dopo ben ventitré anni di servizio. Grazie anche all’ autorevole contributo giuridico dato dal giudice Renella, oltre a porre fine ad una “lite scandalosa”, aveva fatto prevalere anche “gli inviolabili precetti della Carta del Lavoro”. In effetti le questioni legali che avevano coinvolto i due sacerdoti di Casagiove, avevano in realtà coinvolto, inconsciamente, non solo l’Arcivescovo Gennaro Cosenza ed il giudice Alfonso Renella, ma pure il vicario foraneo dell’Arcidiocesi di Capua, don Lorenzo Centore, originario anche egli di Casagiove, “il quale esplica(va) encomiabilmente in Casagiove, con santa abnegazione, la sua cristiana missione di bontà e di carità, in prestigio della Religione ed a sollievo del popolo”.
Fonti:
- Società di Storia Patria di Terra di Lavoro, Emeroteca – Raccolta “Terra di Lavoro”, Anno XXXIII, Numero 37, Caserta 7 settembre 1929.
(Foto in evidenza raffigurante l’arcivescovo metropolita di Capua, monsignor Gennaro Cosenza)